top of page

La caduta dei limiti percentuale di occupazione delle aree destinate alla collocazione di impianti e del Regolamento regionale n.472002 (sentenza Consiglio di Stato 22 gennaio 2025 n.466)

  • Avv. Marco Luigi Marchetti
  • 16 ago
  • Tempo di lettura: 4 min

Leggi

L’argomento è di grande interesse per il settore, dal momento che tocca uno dei temi più delicati riferiti ai limiti di impatto territoriale in applicazione del principio di minimizzazione previsto dalla normativa e virgola in particolare, dal decreto legislativo 199 del 2021.

La possibilità riconosciuta alle regioni, ricavandola dal sistema, in virtù della quale possono essere dettati i limiti di occupazione, determinati in percentuale, delle aree destinate alla collocazione   di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili era riconosciuto come baluardo territoriale e paesaggistico, e soprattutto come saggia scelta legislativa regionale finalizzata ad attuare il principio di minimizzazione dell’impatto normativamente sancito. Le percentuali dettate dalla legge regionale ed assunte nel regolamento citato vedevano scale diverse a seconda della destinazione (agricola, produttiva, ecc.), generando così, automaticamente, la impossibilità di una occupazione massiva on tale dei territori visto che ogni unità fondiaria trovava i limiti citati. Si arrivava alla totale occupazione solo nel caso di comunità energetica, ad evidente scopo di agevolazione.

La vicenda fu affrontata in primo grado dal Tar  Umbria con una sentenza che riconobbe piena validità a quel regolamento per evidente logica deduzione derivante dalla lettera dell’art. 20 del d.lgvo 199/2021 (in questa rubrica vi sono altri interventi su tale pronuncia), ove questo stabiliva che i decreti attuativi sulla individuazione dele aree idonee, erano destinati fissare i limiti massimi di occupazione così da far desumere che la occupazione totale sarebbe stata incoerente con il sistema. E se così era, la legge regionale ben poteva limitare la capacità di occupazione. Là questione non mutava neanche cambiando il profilo teorico di questo limite di occupazione, né se questo fosse stato visto come limite che operava quale semplice limite fisico, né se fosse stato valutato come una sorta di capacità edificatoria per la costruzione di impianti, come una sorta di indice fondiario allineato ai principi urbanistici.

In pratica nel caso specifico mancava alla società ricorrente quella disponibilità dell’area tale da far desumere che una parte di essa, conforme la regolamento, rimaneva intonsa da impianti, (oltre l’atto d’obbligo e il certificato di destinazione urbanistica). Il Tar, quindi, rigettava il ricorso contro il diniego e la società proponeva appello. Il secondo grado trovava un cotesto di lettura  normativa diverso

Il Consiglio di Stato ribalta il risultato e sancisce che la   a Regione, nel caso di specie, era impossibilitata a introdurre requisiti ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa statale, quali quello della “potenza fotovoltaica” e dell’obbligo di sottoscrivere apposita convenzione. Ciò, in quanto l’articolo 20 del d.lgs. 199/2021 e l’articolo 12, comma 10, del d.lgs. 387/2003 ammettono un intervento regolamentare della Regione “solo ‘a valle’ di quello dell’autorità statale, al fine di poter salvaguardare l’uniforme applicazione della normativa energetica e l’esplicarsi della libera concorrenza nel settore”. Tale lettura, secondo il Collegio, è quella che si pone maggiormente in linea con il diritto eurounitario, e con gli obiettivi posti dall’Unione in materia di decarbonizzazione

la sentenza n. 466 del 22 gennaio 2025, il Consiglio di Stato, in accoglimento ha riformato la sentenza di primo grado e annullato il Regolamento Regionale 12 luglio 2022, n. 4 (art. 6 bis) della Regione Umbria e i relativi atti applicativi, nella parte in cui hanno illegittimamente preteso di dare applicazione al requisito ulteriore della cd. “potenzialità fotovoltaica” che obbligava ad acquisire la disponibilità di un’area aggiuntiva pari al 50% della superficie residua dell’intera area industriale da lasciare libera e la sottoscrizione del relativo piano attuativo convenzionato.

Il Consiglio di Stato ha inoltre chiarito che è precluso alle Regioni, e dunque anche alla Regione Umbria, di individuare limiti aprioristici alla superficie massima utilizzabile per l’ubicazione degli impianti da fonti rinnovabili ovvero “ulteriore documentazione che costituisca inutile aggravio procedimentale”, tali da rendere “assai più difficile l’installazione di impianti di energie rinnovabili in zone già qualificate dal legislatore nazionale come idonee a tale utilizzazione ed anzi preferenziali per essa e di aggravare eccessivamente il procedimento, rendendo ingiustamente onerosa la realizzazione degli impianti stessi”. Questo ragionamento si pone nel solco di altre pronunce non solo dello stesso Consiglio di Stato (n. 5417/2013 della terza Sezione), ma anche della Corte costituzionale (sentenze n.286/2019 e n. 106/2020). Sarebbero le norme nazionali e solo quelle a poter prevedere i documenti necessari per la presentazione dell’istanza pena la violazione del principio di aggravamento del procedimento. mentre è consentito alle Regioni di chiedere integrazioni solo laddove siano rese necessarie dalla normativa di settore e non costituiscano un inutile aggravio procedimentale. Allo stesso modo, secondo la medesima giurisprudenza, le Regioni non possono né “provvedere autonomamente alla individuazione di criteri per il corretto inserimento nel paesaggio degli impianti” né tantomeno creare preclusioni assolute e aprioristiche, che impediscano ogni accertamento in concreto in sede autorizzativa.

Il principio va preso con le molle, nel senso che suscita perplessità il fatto che una regione non possa prevedere modalità di generazione di regole di carattere puramente applicative dei principi generali costituenti modalità agevolativa del proprio lavoro istruttorio per la presentazione della istanza. La necessità di dover valutare tutta una serie di parametri finalizzati alla verifica del rispetto dei principi generali (basta leggere le linee guida) , come, tra i tanti,  la minimizzazione dell’impatto tramite la intervisibilità (quali strumenti ne consentono la oggettiva valutazione?) dovrebbero generare maggior attenzione ai problemi degli enti locali, che godono dei principi sanciti dal Testo unico Ambiente per la competenza regolamentare ad essi attribuita in materia e non possono e non devono rimanere inerti di fronte agi effetti che la collocazione può generare (quello che è successo in altre regioni sembra sfuggir all’interprete, ma solo una attenta elaborazione regolamentare può correggere la superficiale portata dell’art.20 più volte citato che non è affatto solo a governare la materia, ma è inserito in un sistema non perfetto e che  impone  massima attenzione proprio nella fase valutativa delle istanze. La sentenza parla del divieto di introdurre principi aprioristici, ma si rischia di ribaltare dalla parte opposta la questione divenendo aprioristica la possibilità di collocare ovunque e comune gli impianti mentre è proprio la competenza istruttoria di una materia labile come questa a rendere necessaria la tutela dello scopo che non è autorizzare ad ogni costo, ma autorizzare senza danni al territorio o al paesaggio. La necessità di evitare il ricorrere ai principi generali che sfuggono poi nell’attuazione bilanciata, si raggiunge solo attraverso la massima qualità progettuale, e la possibilità di valutare tutti quegli aspetti che una continua erosione dei filtri di valutazione e di agevolazione autorizzatorie rende difficile senza un apparato idoneo allo scopo.

 


 
 

©2021 by Francesco Marchetti

bottom of page