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La cultura del piano e le energie rinnovabili

  • Immagine del redattore: Jack Daniels
    Jack Daniels
  • 16 ago
  • Tempo di lettura: 9 min

 Il tema dell’energia domina ormai le prospettive del nostro quotidiano, e pone interrogativi di grande portata sociale ed economica. Questo, unito al tema della transizione ecologica, apre tutta una serie di questioni afferenti  la materia del governo del territorio  che generano  la necessità – urgente – di soluzioni adeguate chiamando in campo la competenza degli architetti e di  altre  professionalità, e soprattutto nuove idee.

 

Innegabile la spinta del legislatore verso l’ampliamento delle prerogative delle fonti da energia rinnovabile, ed innegabile è anche la pressione che la Nazione avverte di potersi rendere indipendente quanto più possibile attraverso anche questa modalità di produzione.

Ma l’accelerazione che la materia ha avuto negli ultimi tempi, per contingenze di varia tipologia, non deve far dimenticare i problemi non risolti, le incertezze, le questioni che  nelle scrivanie pubbliche e private rimangono senza risposta adeguata.

 

Mai come in questa fase e in questo settore l’ordinamento giuridico si è presentato opaco nelle soluzioni, frettoloso nella emissione di  norme che si rincorrono insieme alle agevolazioni fiscali, contributive, procedimentali, autorizzatorie,  ma  poco lungimirante sulla lunga scadenza.

Gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, pur nella loro varietà tecnica, sono  specchio di una  materia poliedrica, contrapponendo utilità oggettiva a potenzialità lesiva, ma è stata  affrontata dal legislatore quasi senza metodo,  con un approccio che non ha tenuto conto di una lunga, preziosa, cultura del governo del territorio che aveva fatto del metodo della  pianficazione e della valutazione preventiva una strumento valido di equilibrio tra interessi pubblici e privati, di ponderazione oggettivata in regole di scelte possibili per un armonico raccordo di interventi sul territorio. Al contrario sulla materia delle energie rinnovabili tutto appare dettato da emotività, dall’esigenza di assicurare il risultato a scapito del modo, e degli altri interessi che vengono penetrati dalla scelta. Un sistema che pondera l’apertura di una finestra o che limita in area agricola le dimensioni di un capanno finisce per consentire la collocazione di infrastrutture di dimensioni enormi senza un piano preventivo, addirittura con procedure semplificate, come le PAS , oggi  possibili  per parchi   fotovoltaici fino a dieci Mwp ( cfr. da ultimo il D.L 1 marzo 2022 che introduce misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per il rilancio delle politiche industriali e con sistemi di semplificazione per l’installazione sui tetti di edifici pubblici e privati e in aree agricole e industriali; cfr. inoltre   il Decreto sulle fonti rinnovabili RED II (Renewable Energy Directive) n. 199/2021,. Il Decreto Legislativo attua la Direttiva UE 2018/2001 sulla “promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”.).

 

  

La produzione di energia da fonti rinnovabili pone infatti ora – con  estrema urgenza - la necessità di passare da un regime di agevolazione generica ad un regime ordinato, dove il favor del legislatore si possa coniugare con la migliore cultura italiana della pianificazione.

La forza degli impianti FER infatti, è dovuta sul piano giuridico alla derivazione della normativa comunitaria ed alla qualificazione del d.leg.vo 387/2003 che ne è attuazione  quali “ opere di pubblica utilità indifferibili ed urgenti”. Una qualifica che irrompe e prevale su altre per dare  supremazia  procedimentale e collocativa nella comparazione con altri valori, anche  di rango costituzionale, primo fra tutti il paesaggio.

 

Nel corso degli ultimi dieci anni vari sono stati infatti gli interventi del legislatore in questa materia, e tutti monodirezionali. Purtroppo è anche sfuggita ad un dibattito adeguato la modifica degli artt.9 e 41 della Costituzione,  il cui valore di riforma così applaudito ( cfr. tra i tanti  www.lamagistratura.it con il commento di L. Nazzicone)  è stato giudicato non  all’unanimità, e  da alcuni meramente  iconico più che  innovativo (Carpentieri, Severini “Sulla inutile anzi dannosa  riforma dell’art.9 Cost.” in www.giustiziainsieme.it)  svilendo  un bene dotato di caratura culturale  (la cd. “culturalità del paesaggio”)  e quindi  potendo finire per fletterne la tutela di fronte ad opere che sono giustificate dalla mitigazione dell’inquinamento.  Si può essere o meno d’accordo, e ferma rimanendo la opportunità ora di nuove visioni su questa materia (sarebbe sufficiente  forse un lavoro di esegesi e di sola  nuova  interpretazione),   in generale  si nota una strategia da “scorciatoia”, elusiva della ovvietà di una cautela semplice, costituita da una  pianificazione - regolamentazione di matrice pubblica, adeguata e preventiva che avrebbe dato risultati ben diversi salvando entrambi gli interessi in campo.

 

A queste disposizioni, sempre rimanendo sul piano degli esempi, se ne affiancano altre  di cui si fa uso quotidiano, e di cui sono ormai pieni i repertori della giurisprudenza italiana, che consentono la collocazione di impianti fer, anche di grandi dimensioni, su aree a destinazione agricola. Una collocazione di tale tipo è idonea a mitigare i costi di acquisizione delle aree per i costruttori, ma anche a generare lesioni potenziali - anche di particolare gravità soltanto per la dimensione - per la sottrazione ai comuni della capacità di  pianificazione, per la riduzione di capacità di produzione agricola, per il condizionamento che genera sul territorio, per il consumo di suolo.  In alcune regioni  sono stati autorizzati anche impianti  da trecento  ettari su area agricola, e senza mai una pianificazione  preventiva ( “ …Gli impianti di produzione di energia elettrica, di cui all'articolo 2, comma 1, lettere b) e c), possono essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici..  “ art. 12 d.leg.vo 387/2003; art.11 D.L. 1 marzo 2022)).

Questo modo di forzare un po’  la mano costituisce una non felice modalità di agevolazione, soprattutto incapace di prevedere  quello  che poi è avvenuto puntualmente e cioè un conflitto durissimo delle aziende proponenti con i  comuni  o  con le  Soprintendenze.

Conflitti che recentemente vedono tutti la stessa sorte, ove il favor del legislatore e quella forza dovuta alla qualifica citata, lascia poco spazio ai comuni, ai comitati, al  Ministero  della Cultura.

Modesti tentativi si vedono disordinatamente negli ultimi mesi, tendenti a mitigare l’impatto (la moratoria nel Lazio – giudicata come era prevedibile – non coerente con il nostro testo costituzionale;  o il Decreto Legge  di marzo già citato che  limita al dieci per cento della superficie aziendale agricola la possibilità di collocazione dei pannelli fotovoltaici, già reperibile in altre regioni, come l’Umbria, che usa questa percentuale per finalità analoghe). L’erosione delle prerogative delle Soprintendenze, di cui  pochi parlano, (pareri vincolanti solo su aree soggette a vincolo, supermaneto del potere di opposizione ) viste  spesso come interdittive delle sviluppo, porta ormai  a constatare  come  sia recessivo qualunque filtro di valutazione  procedimentale, come se fossero perdite di tempo, orpelli inutili e dispendiosi di un ordinamento vetusto, e non più giustificabili. Del resto è una realtà che un procedimento per un impianto fotovoltaico che va in PAUR richieda anche cinque anni, e questo da  sicuramente ragione a chi pone in questi termini il problema.

Ma la soluzione non può essere aggirare il problema  bensì governarlo, e fruire di competenze qualificate per questo, superando  conflitti e lavorando per schemi condivisi in via preventiva. Si è pensato che la soluzione potesse essere quella di rendere liberi gli interventi, purchè si facciano, come in omaggio ad un pragmatismo facile, ma infelice ed imperfetto. Un impianto  di dieci  MWp  può essere realizzato con una semplice PAS. Un impianto eolico, in area non vincolata, è una pec da inviare in comune. Ma perché l’alternativa dovrebbe essere costituita dal taglio  di qualsiasi valutazione preventiva? Nessuno dice che molti impianti passano tacitamente  perché i comuni spesso non riescono a gestire i procedimenti, e vengono autorizzati così e per questo. Una materia non facile, un apparato amministrativo in difficoltà, una impreparazione rinvenibile qualche volta nei comuni porta a questo. E  un impianto di grandi dimensioni viene oggi filtrato in sede  regionale, o dalla preannunciata  Commissione Ministeriale,  di cui ancora poco si sa.  Ma anche qui i criteri puntuali ( e non generici come quelli del DM del 2010) quali sono? Come si potrà assicurare un lavoro adeguato all’importanza del fenomeno e del contesto? Nel Lazio – terra ormai forgiata sul tema - l’area VIA ha coniato un lavoro di  innegabile  rilevanza, apportando criteri ormai di particolare avvedutezza nella collocazione dei grandi parchi fotovoltaici, e correggendo vecchi errori. Eppure la soluzione, per  un ordinamento come il nostro, dovrebbe essere ancora  diversa, e non rimessa al volontarismo di pochi.

 

Il tema che qui si affronta vuole allora rivendicare un mondo di competenze, di studio, di cultura  che la nostra Nazione possiede e  che deve essere richiamato proprio ora. E’ la cultura del piano, quale strumento generato proprio per calibrare equilibri tra interessi pubblici e privati, per fornire regole che consentano armonici raccordi, sviluppi adeguati, economie della fruizione dei terreni, ponderare le azioni sull’ambiente, o se si vuole, ancora più genericamente la cultura della pianificazione. Un sistema di regole  che consenta almeno per la materia di cui parliamo di poter governare il fenomeno. Non ricorro a citazioni e non ignoro filosofie di approccio anche molto critiche allo strumento o al procedimento per la sua formazione, come  ricordo quello che scrisse Marco Romano ( “costruire liberi”) ma è innegabile che oggi pianificare la  collocazione sul territorio degli impianti di produzione di energia,  e soprattutto usare i PEC ( piani energetici comunali :L’articolo 5 della Legge 10/91, al comma 5, stabilisce che “i Piani Regolatori Generali di cui alla legge 17 agosto 1942, n. 1150, devono prevedere uno specifico piano a livello comunale relativo all’uso delle fonti rinnovabili di energia”) anche ai fini citati sarebbe di notevole aiuto. Sia ben chiaro non sto parlando dell’elefantiasi da PRG, perché sarebbe l’ennesimo piano a gestazione geologica. Sto parlando di un semplice, possibile piano che individui le aree idonee gestisca alcuni aspetti afferenti la scelta delle aree e la mitigazione degli impianti. Non ci vuole molto, e la realtà di alcuni comuni lo dimostra.

 

Qualcuno replicherà dicendo che il comune non ha competenza specifica su questo, e che le autorizzazioni passano tutte per regioni e province. Non è proprio così, perché l’ordinamento consente di ricavare spazi anche ai comuni su questa materia e su vari livelli ( cfr. anche la esperienza del Lazio, dove la regione ha delegato i comuni a individuare le aree inidonee), ma soprattutto non lo è per una prospettiva futura.

 

Anche in Umbria stanno per arrivare molte istanze per la realizzare di impianti,  e i territori dovrebbero precedere questo arrivo con regole chiare, e con una cultura della qualità del progetto che non può essere rimessa al proponente soltanto. Il regolamento regionale, pregevole per molti spunti, non risolve tutti i problemi perché rimane astratto nella scelta che invece ha carattere di concretezza e puntualità lenticolare. Si notano già impianti senza mitigazioni verdi, posti a bordo strada, senza cautela di distanze, senza valutare la tecnica di collocamento dei pannelli, senza valutare se la potenza degli stessi poteva essere calibrata in modo tale da determinare un minor ingombro, senza cautela sulla visibilità da strade di percorrenza turistica, senza integrazioni con la produzione agricola. A volte si denota una sorta di resa, una debolezza valutativa ,  e quasi sempre  una scarsità  di studio progettuale e di strategia.

Eppure avremmo fior di professionisti appositamente formati  che potrebbero valutare adeguatamente questa situazione e intervenire con studi, analisi, soluzioni. Del resto non può neanche dimenticarsi che la regolamentazione preventiva giova anche  ai proponenti: sapere cosa si può fare prima di farlo è stata da sempre la soluzione di prevenzione del conflitto, e un modo più coerente di velocizzare il procedimento  autorizzatorio. La sfida passa dunque agli architetti, che debbono ritenersi investiti  del problema.

Ma il tema delle energie rinnovabili apre anche ad un altro scenario che interessa quella cultura del progetto e della pianificazione di cui si parlava sopra.

L’emergenza energetica, l’esigenza di autonomia, l’economicità, porteranno presto i comuni a immaginare di potersi generare da soli l’energia per i propri consumi. Non è utopia visto che vi sono già esperimenti di questo tipo (Montalto di Castro, Tarquinia), dove si preannuncia di voler non solo autoprodurre l’energia che occorre agli edifici pubblici, ma anche ad intere fasce di popolazione. Quando questo avverrà, e speriamo che avvenga presto, si presenterà anche questo tema  che  necessita della stessa  competenza.    Il problema si snoda quindi in due tronconi, che corrispondono a due esigenze affini.

 

Se è pressante l’esigenza di “pensare”  la collocazione degli impianti in generale, con tutto ciò che ne è corollario ( mitigazioni verdi,  analisi dei terreni, produzioni agricole complementari dell’agrivoltaico, altimetrie, intervisibilità, criteri di valutazione cumulativa, ecc.) lo è ancora di più sotto il successivo profilo della produzione endogena comunale. I  PEC citati sopra infatti, dovrebbero ormai portare a individuare anche aree pubbliche destinate a  fonti di produzione energetica del territorio. Un comune dovrebbe immaginare come ricavare la propria energia, quanto meno per i propri consumi, e se ricorre ai parchi fotovoltaici    non potrà fare a meno  di immaginare dove e come  farli. Le dimensioni non sono certo quelle delle aree industriali o artigianali di stampo tradizionale: immaginare una produzione energetica  di una città come Perugia , anche fruendo dei panneli da 650 Kwp di ultima generazione, porta a immaginare centinaia di ettari. Un territorio tutto vincolato come quello di Assisi porta ad altri e più complessi problemi. In comuni dell’appennino occorrerà pensare a unioni tra essi. Il PTCP della Provincia di Perugia tentò di creare oltre venti anni or sono una previsione di aree industriali intercomunali per evitare la realizzazione individuale in ogni singolo comune, spesso inutilmente dispendiosa, e mediante un sistema di compensazioni tributarie che assicurava appunto una gestione intercomunale. E’ rimasto a livello di studio ma potrebbe essere oggi recuperato.

Quello che si vuole sostenere è che in tutto questo settore si avverte l’assenza degli architetti e l’assenza di un’attenzione professionale e meditata  su un tema che ha la stessa natura emergenziale del periodo del boom economico per l’aspetto edilizio.  

La speranza è dunque una immediata presa di coscienza, analoga a quella della Commissione Franceschini del 1964, che possa correre ai ripari apportando le competenze migliori dei nostri professionisti per prevenire danni e garantire che la transizione ecologica avvenga  in coerenza con i nostri valori culturali.

 

 

 

 
 

©2021 by Francesco Marchetti

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