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Oggetto: Corte Costituzionale sente n. 28/2025 – sul divieto di introdurre moratorie per la autorizzazione alla costruzione di impianti FER

  • Immagine del redattore: Jack Daniels
    Jack Daniels
  • 16 ago
  • Tempo di lettura: 4 min

A chi segue la materia sicuramente non ha  destato stupore  la sentenza n.28 dell’11 marzo scorso con cui la  Corte Costituzionale  ha cassato la moratoria sui procedimenti per il rilascio dell’autorizzazione alla costruzione degli impianti fer contenuta nella legge della Sardegna n.5/24. Gli effetti erano ovviamente limitati al territorio di questa regione che, dopo reiterati segni di insofferenza,  con quella legge ha alzato un muro alla eccessiva collocazione di pale e pannelli da tempo denunciata in vari modi.

Se da un lato è comprensibile - in generale - l’esigenza di guadagnare tempo per organizzare i propri territori  - provati dal clima emergenziale della collocazione degli impianti spesso giustificativo di scelte non molto sedimentate di qualità progettuale e sull’impatto - dall’altro sapevamo bene che un time out sarebbe stata falcidiato dai principi generali della materia. Anche la regione Lazio subì la stessa sorte nel 2020, quando la moratoria ad iniziativa dell’Assessore Lombardi tentò di dare fiato ai comuni della Tuscia  che si ritenevano sopraffatti da grandi impianti, e le motivazioni furono simili.

La sentenza della Corte Costituzionale, nello specifico, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 3 della legge ove essa introduceva il divieto di realizzazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili per un periodo di 18 mesi, in attesa dell’approvazione del provvedimento legislativo con cui si individuavano le aree idonee. La moratoria, da alcuni contestata perché troppo rigorosa, e da altri applaudita per morivi opposti,  è stata ritenuta dalla Corte  in contrasto con la normativa nazionale ed europea in materia di decarbonizzazione e transizione energetica. La ratio, nota ed intuibile, della legge colpita dalla sentenza, era sussumibile nella sospensione di 18 mesi, e operante orizzontalmente. La temporaneità veniva nella legge sottolineata ed esaltata come se il legislatore regionale avesse già ben presente su quali argomenti si sarebbero  concentrate le eccezioni e le contestazioni, avendo senz’altro avuto presenti i pregressi  giurisprudenziali citati .Infatti non c’è voluto molto a richiamare quei principi già usati altrove. Per la Corte Costituzionale il provvedimento regionale viola infatti i principi stabiliti dall’articolo 20 del decreto legislativo 199 del 2021 con cui si prevede il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione al 2030. La norma nazionale - di diretta riproduzione Unionale  - tra le altre cose, prevede proprio il divieto di introdurre moratorie per l’installazione di impianti Fer, disposizioni valutate  in logico conflitto con il divieto - pur se temporaneo - fissato dalla Regione Sardegna. Ma a leggere il testo della legge si nota ben altro. La Sardegna ,che ha emesso la legge velocemente e con piglio  di difesa territoriale, aveva valutato che già a dicembre  la moratoria sarebbe stata superata per la celere individuazione delle aree idonee.  A dicembre, il Consiglio regionale sardo ha approvato infatti con straordinaria velocità la norma che individua le aree idonee e non idonee per l’installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Un provvedimento che per primo tra le regioni ha aperto la strada degli enti territoriali legiferanti sul punto,  che strategicamente pone fine alla moratoria e, al tempo stesso, proclama chiuse le prerogative collocative nel proprio territorio. In pratica la strategia è stata quella di ottenere che solo una percentuale risicata si aree viene oggi reputata ancora idonea ad una tale possibilità di realizzazione, non superiore più o meno all’uno per cento del territorio. La scelta, senz’altro ardita, nasce da lontano e dalla percepita ingiustizia delle collocazioni disordinate, massive , spesso incuranti degli interessi delle comunità locali, ritenute da molti prevaricatorie sulle volontà dei comuni. Un paesaggio ormai alterato dalle pale e dalla incoerenza di strutture fuori scala non viene considerato coerente con il pur proclamato principio della minimizzazione degli impatti anche esso scolpito nella disciplina generale, mentre la percezione di una produzione energetica puramente speculativa eleva ostilità localistiche e affina difese. Insomma, la questione della moratoria non desta stupore negli interpreti, neanche per il fatto che colpiva anche gli impianti già autorizzati, così spingendosi - tramite la retroattività - quasi alla provocazione per la troppo evidente incoerenza con il sistema , mentre la sfida viene lanciata più avanti sulla individuazione delle aree idonee e non . 

La sentenza continua a mantenere aperto il dibattito sul conflitto tra fer e paesaggio e quindi sul rapporto, invocato dalla Corte, tra l’obbligo del raggiungimento degli obiettivi imposti dalle direttive europee (obiettivi di decarbonizzazione al 2030), recepite con il Dlgs 199/2021e nelle norme attuative), così compromettendo gli impegni assunti dall’Italia per garantire la massima diffusione degli impianti da fonti di energia e il paesaggio, i territori, le prerogative pianificatorie dei comuni.

Pertanto, anche se la legge della Sardegna è finalizzata a tutelare il paesaggio, la disposizione impugnata incide sulla materia "energia" e contrasta con i principi fondamentali individuati dal Dlgs 199/2021 all'articolo 20, che si impongono prevalendo sullo Statuto della Sardegna quanto alla competenza in materia. 

Questo il tema. Scontato l’esito , meno la spinta tutelativa che non tocca tutte le regioni, alcune delle quali lasciano passare il tempo abdicando ad una funzione rilevantissima e lasciando a che altri decidano, primi tra questi i privati che così  pianificano in sostituzione degli enti pubblici presentando domande basate su criteri collocativi di caratura generale. La sentenza da questo punto di vista rimane dunque  valida anche  come monito alle regioni ancora silenti.

Nessuno potrà negare che, in una nazione ove la pianificazione urbanistica si prendeva non mesi ma anni per generare uno strumento, i termini imposti dalla normativa siano tiranni. Chi si muove in questi temi sa bene quanta debolezza operativa, logistica, conoscitiva impedisce risposte pronte alla individuazione delle aree idonee. Ma non basta invocare la necessità della fretta per tamponare costi energetici e avviare il nostro paese su un modello finalmente nuovo. La fragilità paesaggistica e la inevitabile lesione derivante da collocazioni non meditate richiedevano ben altri modelli e un sistema ben più strutturato. L’erosione dei filtri di valutazione istruttoria ha aggirato il problema ma  non l’ha affrontato. Non siamo l’Olanda o il brandeburghese, né abbiamo vasti spazi desertici, come altre nazioni, fruendo in massima parte di territori complessi orograficamente sedimentati storicamente nell’immagine, fortemente evocativi, generatori di indotto. Ci serviva tempo, competenza, organizzazione, per costruire schemi operativi e impostare una vera pianificazione. Le conferenze di servizi, tranne alcuni esempi, non riescono sempre a filtrare, limare, o perfezionare i progetti, i lay out e la inservibilità, e non sempre danno l’edito sperato.

Nel frattempo, l’Umbria è uscita  con la sua proposta di individuazione delle aree idonee e non  idonee, che merita tutta l’attenzione per le conseguenze rilevanti che porterà nel nostro territorio e al cui commento rinviamo.

                                                                                                          Marco Luigi Marchetti

 

 

 

 
 

©2021 by Francesco Marchetti

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